Non c’è solo una crisi della professione giornalistica, ma anche dei giornalisti. Due inchieste di Irpi Media rompono i tabù.
Ne sono cambiate di cose da quando Humphrey Bogart, nel film di Richard Brooks ‘Deadline – Usa’ (in italiano: ‘L’ultima minaccia’, 1952), pronuncia una delle battute cinematografiche più note di tutti i tempi. I giornali perdono copie e lettori, i fruitori delle notizie credono sempre meno ai media. Rotative e inchiostro su carta sono specie in via di estinzione. “E tu non puoi farci niente! Niente!”, cit. O forse sì.
In questo momento della mia vita mi sento fluttuare tra un ‘Come ti senti’ e il ‘Voi con queste gonnelline mi provocate’. Non sono frasi qualunque, ma i titoli di due inchieste condotte da Irpi Media sul lavoro giornalistico in Italia. Burnout, precariato e molestie: ne vale davvero la pena? L'unica certezza è di essere in buona compagnia. Il problema è tanto diffuso quanto poco affrontato.
Domanda semplice semplice: perchè il giornalismo non può essere considerato una professione come tutte, da contrattualizzare, retribuire, difendere, monitorare?
‘Come ti senti’ è la prima indagine sulla salute mentale di chi fa informazione e documenta una sindrome da stress legata a retribuzioni insufficienti e alla precarietà delle condizioni di lavoro. Dalla ricerca, a firma di Alice Facchini, è nato l'omonimo volume di Irpi Media e Ordine dei giornalisti della Lombardia (lo trovate anche cartaceo nella sede milanese di via Antonio da Recanate, 1). Si è svolta da luglio a ottobre 2023 attraverso un questionario anonimo. Hanno risposto 558 giornalisti da tutta Italia.
“Uno su tre parla esplicitamente di depressione, l’87% soffre di stress, il 73% di ansia, il 68% vive un senso di inadeguatezza. Il 42% afferma di essere in burnout, di avere attacchi di rabbia immotivati e di essere dipendente da internet e dai social network - si legge -. Il 28% denuncia perdita di appetito o abuso di cibo, il 27% ha attacchi di panico e il 26% ha difficoltà a intraprendere e mantenere relazioni di coppia. Un quadro tanto prevedibile quanto preoccupante”.
In ‘Voi con queste gonnelline mi provocate’ Francesca Candioli, Roberta Cavaglià e Stefania Prandi hanno raccolto, per otto mesi a partire da febbraio 2024, centinaia di testimonianze di ex studentesse e studenti dei dieci master di giornalismo italiani riconosciuti. Cosa emerge? Sessismo e molestie sessuali sono di casa sia in classe che nelle redazioni.
“La metà delle persone sentite ha riferito di aver assistito o saputo di molestie sessuali e verbali, tentate violenze sessuali, atti persecutori, stalking, ricatti e discriminazioni di genere. Un terzo delle alunne ha descritto nel dettaglio, con nomi e cognomi, gli abusi subiti. Oltre ai racconti, ci hanno fornito screenshot, e-mail, documenti e video. Nessuna delle persone che abbiamo sentito ha sporto denuncia per ciò che ha subito”, scrivono le colleghe. “Sappiamo che lo spaccato che abbiamo fornito rispetto alle scuole di giornalismo è simile a situazioni che si possono trovare nelle redazioni. Per questo motivo abbiamo creato il questionario anonimo ‘Espulse. La stampa è dei maschi’ aperto sia alle studentesse sia alle giornaliste freelance e a quelle assunte, che può essere diffuso e compilato”.
Colpisce, in entrambe le inchieste, la quantità di voci su uno spaccato poco conosciuto dai fruitori delle notizie: una quotidianità di incertezza economica, pressioni, fatica fisica e mentale.
E allora, perchè lo fai?
Perché senza giornalismo saremmo tutte e tutti più poveri: di conoscenza, di sguardi, di prospettiva. Il controsenso è che troppo spesso la povertà, un giornalista, la sconta ogni giorno. Se la qualità delle informazioni prodotte è scadente è anche una conseguenza di questo.
Non sono letture semplici, ‘Come ti senti’ e ‘Voi con queste gonnelline mi provocate’. O, per lo meno, per me non lo sono state. Ogni storia è un pugno allo stomaco, è un trauma che riemerge, è la paura più grande di ricascarci nel nome di una professione che tende a toglierti tutto. Ho riconosciuto il mio ex direttore nella testimonianza di una giovane stagista. E' forse la prima volta da quando mi sono dimessa (due anni fa, dopo sette anni di assunzione, da un ambito contratto giornalistico nazionale a tempo indeterminato cosiddetto articolo 1, merce assai rara) che ho rivissuto il peso di quelle mani sulle spalle mentre titolo il centesimo lancio d’agenzia della giornata.
"Un massaggio così ti rilassi, sei così tesa, ma dov'è la fede al dito? Devi indossarla sai, se no noi maschietti certi pensieri ce li facciamo. E i tacchi? Hai fatto la birichina stanotte? Fai sesso protetto? Con me hai firmato un patto di cinque anni senza figli, ricordalo“
Un atto di controllo, le mani del capo di mezza età sulla schiena della giovane collega. Avrei forse preferito sapere di essere l'unica, di essermi sbagliata, d'aver frainteso la natura di comportamenti reiterati negli anni. E invece siamo tante, troppe: l’85% delle giornaliste assunte in redazione ha subito molestie sessuali almeno una volta nel corso della vita professionale, secondo l’unica ricerca nazionale a disposizione sul tema pubblicata nel 2019 dalla Fnsi - Federazione nazionale della stampa. Il 3% ha subito uno stupro, l’8% una tentata violenza sessuale.
Quante volte abbiamo normalizzato le molestie per sopravvivere ai nostri capi? Sia quando le subiamo, sia quando le vediamo perpetrare. Maschi e femmine. E quando le agiamo? Spesso si tende a sminuire: toccate fugaci, baci rubati, mani sulle cosce, commenti sugli abiti e occhi sulla scollatura. Sei un uomo e non sorridi? “Sarai mica omosessuale?”. Sei una donna e non rispondi con una risata? “Che noiosa, allora vedi che ti servirebbe un uomo”.
Quante volte ci siamo domandate se quanto accaduto è una violenza. Rivediamo la scena al rallentatore, la osserviamo da diverse angolazioni interrogandoci sulla dinamica. Forse stiamo esagerando? Abbiamo ingigantito una situazione innocua? Il dubbio si insinua.
La violenza di genere non è un problema individuale, ma collettivo e culturale. Per reagire a una situazione di violenza è importante riconoscerla, non sentirsi sole, sapere che sia nelle scuole, negli Ordini e nel sindacato si possono trovare percorsi e persone di supporto. A tal proposito consiglio la lettura del vademecum redatto dall’avvocata penalista Virginia Dascanio, come suggerito dalle colleghe di Irpi Media. Un prontuario specifico sugli abusi dentro i luoghi di formazione e nelle redazioni in cui
“esiste una persona in posizione apicale e le altre subalterne. È una questione di potere, come sempre”, denuncia Dascanio.
Mi rivedo nella storia di Monica, 31 anni, entrata in redazione come videogiornalista per occuparsi di temi sociali, ambiente e diritti. In ufficio l'avevano soprannominata 'Wonder woman', la donna che non si ferma mai: al suo caporedattore aveva dato la massima disponibilità. Reperibilità assoluta. Per guadagnare uno stipendio dignitoso lavorava nei weekend, durante le feste, aveva la valigia sempre pronta per partire. Si sentiva gratificata dalla continua mole di lavoro affidata, ma allo stesso tempo accumulava stanchezza e stress. Mai sentito parlare di ‘workaholism’? È un termine che nasce dall'unione di work, lavoro e alcoholism, alcolismo. Spiegata facile: è la dipendenza da lavoro, classificata nella letteratura scientifica come vera e propria dipendenza patologica.
Provo a fare un esercizio, non facile ma necessario: guardare al mio settore con gli occhi di chi non ne fa parte.
Le vedo le persone ancora convinte che quella dei giornalisti sia un'élite che gode di privilegi, sa le cose prima degli altri, conosce segreti, stringe relazioni. Un'immagine mitologica e che rappresenta una piccolissima porzione della categoria: quella che esibisce il proprio status destreggiandosi tra salotti televisivi, eventi pubblici e dibattiti. "Sempre meglio di lavorare", raccontano i colleghi più anziani descrivendo un'epoca che non esiste più. A partire dai compensi.
Oggi riesce a fare il giornalista chi si può permettere di convivere con condizioni sempre più precarie. Lo dicono i dati dell'Osservatorio sul giornalismo dell'Agcom, l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. In Italia i giornalisti attivi sono circa 35mila, di cui il 39% è freelance. Solo il 28% dei giornalisti under 35 fattura più di 20mila euro l'anno, contro il 57% di chi ha più di 55 anni. Tra i giornalisti con partita Iva solo il 32% guadagna più di 20mila euro l'anno, meno di uno su tre; il 28% non raggiunge i 5mila euro.
Una realtà distorta in cui oltre alle regole del mercato devi far conto con il mito del sacrificio e l'obbligatorietà della perfomance sempre e comunque.
Ci viene fatto credere che se non accetti di lavorare a venti euro lordi a pezzo per un quotidiano nazionale è perchè non ti importa abbastanza della professione. Se dopo dieci anni di lavoro non ti va bene un contratto da milleduecento euro netti sei giorni su sette con reperibilità h 24 sei svogliato e non così desideroso di fare il giornalista. E se non sei disposto ad accettare ogni condizione, forse è meglio che cambi mestiere.
D'altro canto a chi sta fuori dalla bolla dell’informazione come lo spieghi che sei una professionista di valore anche se la retribuzione che ti viene offerta sono due noccioline e mezza ghianda? Il senso di frustrazione e la messa in dubbio delle proprie capacità è quotidiano.
Per questo la storia di Giacomo è la storia di tutte e tutti noi. Trentaquattro anni, precario e sottopagato, gli viene chiesto di fare un servizio sul caporalato nei campi intorno alla sua città.
"I braccianti mi raccontavano che lavoravano sotto il sole per tre euro all’ora, e invece di provare empatia sentivo solo una grande rabbia: io guadagnavo zero euro all’ora, eppure la mia storia non la raccontava nessuno. Se mi fossi ammazzato, ci sarebbe stato solo un trafiletto sul giornale e sarebbe finita lì".
Non riusciamo a infrangere il muro di solitudine e il senso di vergogna che ci perseguita mentre rincorriamo collaborazioni pagare pochi euro.
Siamo lasciati soli ad affrontare condizioni di salute che non riguardano il singolo ma l’intera categoria. Siamo bravissime e bravissimi a raccontare i mali che affliggono altre professioni, gli altri lavoratori, ma anche incapaci ad affrontare collettivamente i sintomi di un disagio che in molti casi assume i connotati di malattia professionale: stress, depressione, burnout.
Non sappiamo parlare di noi stessi. Si tratta di vergogna? E’ per pudore? Forse il timore di definirci vulnerabili? In un mondo organizzato per i lavoratori dipendenti (mai provato a chiedere un contratto di affitto o un mutuo senza il posto fisso?) il senso di inadeguatezza dei giornalisti precari è un macigno. Di sicuro, denunciare è sempre un privilegio.
La soluzione?
Iniziare a non accettare paghe da fame. So che è praticamente impossibile e io stessa ci casco in nome di quel sacro fuoco della passione fin troppo abusato. Ma proviamo, interrompiamo il circolo vizioso di un mercato che privilegia i privilegiati.
Rompere il tabù, iniziando a prendersi cura del proprio benessere, tutelare la salute fisica e mentale. Che può anche significare iniziare a parlarne con un/una professionista: psicologo, psicoterapeuta, psichiatra, a seconda delle proprie esigenze (e, ancora una volta il tasto dolente: la propria disponibilità economica).
Non dobbiamo avere paura di chiedere aiuto. L’Ordine dei giornalisti, il sindacato Fnsi e le Associazioni stampa regionali offrono servizi di tutela legale gratuiti, come consulenze per avviare un’eventuale causa di lavoro e assistenza in materia di querele temerarie.
E poi la cosa più difficile: uscire ‘fuori’, ridimensionare la dipendenza del lavoro e la sua importanza nell’arco delle 24 ore, sottrarci dal vortice del giornalismo ogni volta che ne sentiamo l’esigenza, ricercare e mantenere un equilibrio con qualcosa che ci fa respirare: che sia un hobby, un affetto, un nuovo interesse.
Chiedermi: chi sono io oltre al giornalismo?
Letta tutta d'un fiato, riconoscendomi in molti punti. Avrei però anche un altro suggerimento, oltre a quello di non accettare compensi da fame spinti dalla sacra fiamma del giornalismo: quello di sostenerci di più a vicenda. E cercare di sostenere le realtà giornalistiche indipendenti, se non economicamente, almeno parlandone e condividendone gli articoli. Ho creato un progetto indipendente che ancora fatica a reggersi sulle sue gambe, ma la cosa che più mi ha fatto male in questi anni di vita, è vedere che i colleghi che hanno cercato in qualche modo di sostenermi, sono stati pochissimi. E perlopiù persone fisse in redazione. Mancati all'appello Soprattutto i freelance, e chi fa parte di collettivi che predicano bene e razzolano male, ma se lo faccio presente che sembra che io sia invidiosa. Quando semplicemente mi sembra un controsenso parlare di solidarietà e aiuto reciproco quando invece va a finire che si ricalcano le stesse dinamiche che si criticano. Speriamo che se ne esca in qualche modo, da questo autoreferenzialismo e poca solidarietà collettiva.